Marco Vergani, autore di Digital Start-up edito da Maggioli per la collana Digital Generation, è un commercialista esperto nell’accompagnare organizzativamente lo sviluppo delle imprese digital e in particolar modo le startup. Gli ho posto alcune domande sul mondo della fiscalità nelle attività web e digital.
Ciao Marco, ci racconti i tuoi attuali focus lavorativi?
Ciao Francesco, certamente. Parto col dire che sono un dottore commercialista esperto in startup d’impresa e finanza. Seguo dal 2012 il filone dell’innovazione e della digitalizzazione in Italia, dall’ingresso nel nostro ordinamento giuridico delle startup innovative, con il DL 179/2012. Da allora mi sono specializzato in consulenze per imprese innovative all’interno del mio studio di Milano. Seguo in generale progetti legati al digitale in settori quali intelligenza artificiale, digital delivery, social e mobile app, blockchain e cybersecurity tra gli altri. Cerco di seguire il cliente con un approccio a 360 gradi, dalle prime fase di impostazione dell’attività sino all’affiancamento nelle fasi di sviluppo e di pianificazione fiscale successiva.
E quali sono invece i focus del tuo libro sulle Digital Start-up?
Nel libro ho pensato di rivolgermi alle imprese digital (siano esse start-up in senso stretto ma anche imprenditori o liberi professionisti che operano nei vari settori digital) cercando di aiutarle ad affrontare le problematiche legate allo sviluppo del business e a raggiungere i loro obiettivi. Il testo è suddiviso in due sezioni che possono anche essere lette separatamente. Nella prima parte si affronta l’analisi generale dei principali adempimenti necessari per l’avvio di un’attività imprenditoriale con particolare riguardo al mondo delle professioni digital ed evidenziando come snodo cruciale del processo di start-up sia la scelta della forma giuridica più adeguata alle caratteristiche del business. Nella seconda parte, oltre ad introdurre il tema del reperimento delle risorse finanziarie necessarie a sviluppare il proprio progetto, verranno analizzati alcuni strumenti gestionali che assolvono contemporaneamente il doppio compito di perfezionare la pianificazione della fattibilità del progetto e di presentare a terzi un’idea di business secondo standard formali ampiamente condivisi.
Cosa spinge le persone a lasciare il posto fisso per fare impresa?
Lasciare il proprio lavoro per dedicarsi full time alla propria startup è sempre una scelta difficile e delicata che dipende spesso anche da motivazioni personali. In generale lasciare il lavoro quando non si hanno ancora le idee chiare è sempre una pessima scelta. L’ideale sarebbe cominciare a sviluppare la propria idea nei ritagli di tempo in modo da testarla almeno nei suoi aspetti principali. Io consiglio sempre di continuare a lavorare sul progetto, mantenendo il più a lungo possibile il lavoro e il reddito garantito. Spesso tuttavia si arriva ad un punto in cui tutto quello che si è costruito “part time” per diversi anni comincia a crescere troppo velocemente per restare un “side project”. Forse questo è il momento giusto per pensare di dedicarsi a tempo pieno al proprio progetto. In generale la soddisfazione che si prova quando si crea qualcosa di proprio é enorme, e nessuna promozione, stipendio o titolo possono eguagliare.
Come si scelgono i soci?
Per avviare un’impresa non occorre solo disporre di progetti innovativi ma sono necessarie soprattutto persone capaci di portare avanti il progetto imprenditoriale.
Statisticamente tra le diverse ragioni per cui le start-up falliscono, una delle principali è proprio quella della presenza di un team non adatto (“no right team”).
Per questo è davvero importante iniziare a pensare da subito alla ricerca di uno o più soci che possano appassionarsi all’idea, senza aspettare il momento in cui l’intervento di un co-founder sia indispensabile per mettere sul mercato un prodotto.
In generale le startup che risultano più performanti hanno team eterogenei, che si dimostrano più completi in termini di capacità e presentano complessivamente una maggiore esperienza sia nel settore di riferimento che in ambito manageriale e in precedenti statup.
Ulteriori qualità che dovrebbero contraddistinguere i membri del team sono la propensione al rischio, la creatività, la rapidità decisionale, la capacità di problem solving, la tenacia, la passione, l’ambizione.
Avere un buon business model canvas e business plan, quanto mette al riparo un’impresa?
L’incertezza circa i risultati tecnici e di mercato che contraddistingue le start-up rende difficile prevedere i futuri flussi di cassa futuri. Tale fenomeno può essere in parte mitigato attraverso un efficace processo di pianificazione, utile anche per dimostrare ai possibili finanziatori la realizzabilità e la profittabilità del progetto e per conferire al neo imprenditore una maggiore credibilità nei confronti del sistema finanziario. Il Business Plan indica in sintesi quanto tempo e quanti soldi servono per mettere in pratica il proprio modello di business. È un documento complesso formato da tante pagine che comprendono analisi e previsioni e può risultare il più delle volte di difficile interpretazione se non si hanno le giuste competenze. Non per questo è da evitare anzi, è un documento essenziale che deve essere presente in ogni iniziativa economica. Tale piano infatti fornisce una visione tecnica che, stakeholder ed investitori in particolare, andranno a valutare attentamente in previsione di un investimento.
Il Business Plan tuttavia, in fase embrionale, può risultare poco funzionale. Se si vuole avere una prima pianificazione strategica o se non si ha ancora una visione limpida del contesto è meglio ripiegare su un buon Business Model Canvas che al contrario permette di pianificare, rivedere e modificare le varie strategie in ogni occasione e più volte.
Volendo essere più espliciti e diretti, il consiglio è: prima si compila il Business Model Canvas, si fanno test, modifiche e ancora test e modifiche per poi, una volta sicuri, validata l’idea e consolidato il proprio modello di business, compilare il Business Plan.
Ma è varo che la maggior parte delle start-up digitali chiudono entro due anni? E perché?
Innanzitutto c’è a mio modo di vedere una errata identificazione del mercato obiettivo. Tutte le imprese dovrebbero essere costruite su ciò che il loro promotore desidera realizzare, ma tale aspetto va coniugato con la considerazione per quello di cui la gente ha bisogno, desidera ed è disposta a pagare.
Se si inizia a guardare ai dati reali e a perché le imprese falliscono, molte delle ragioni che compaiono sono veramente il risultato dell’assenza di una reale necessità del prodotto/servizio proposto.
In secondo luogo molti progetti falliscono perché la start-up entra in crisi di liquidità nelle prime fasi dell’attività. Non si può mai prevedere con precisione il futuro, ma si possono fare delle stime realistiche. Così per iniziare con il piede giusto, è necessario stimare di quanto denaro si avrà bisogno. E se si scopre che potrebbe non essere sufficiente, allora è meglio rivedere i propri piani.
Più in generale le start-up che non pianificano sono ad alto rischio di fallimento: il tasso di incertezza presente in ogni attività è oggi talmente elevato da far risultare veramente folle la mancata predisposizione di un adeguato piano che possa far ragionare sulle prospettive del business, a breve/medio e lungo termine. Non importa che un piano cambi (e certamente accadrà) perché il semplice fatto di pianificare aiuta a comprendere la visione, gli obiettivi, i fattori chiave per il successo, la forza lavoro necessaria, la concorrenza, il marketing, il budgeting,… E quando si dispone di un piano, si inizia da subito a monitorare, analizzare e rivedere i risultati, in modo tale che si possano adottare gli opportuni accorgimenti.