Rocco Rossitto ha avuto 40 anni, ma poi ha smesso. Una buona frase ad effetto per introdurre un professionista che ha sviluppato le proprie competenze lungo il perimetro largo della comunicazione: i giornali di carta, la radio, i blog, le community e i media sociali, l’online advertising, il marketing dei contenuti, la strategia, la formazione e gli interventi pubblici. Ha scritto Dire qualcosa non vuol dire avere qualcosa da dire, edito da Apogeo Feltrinelli nel 2024.
Di seguito le domande che gli ho sottoposto.
Ciao Rocco, ci racconti i tuoi attuali focus lavorativi?
Il job title è “Communications Strategist & Advisor Freelance”, ma racconta una storia solo in piccola parte e non tiene conto delle stratificazioni di chi (come me, come altri) lavora da ormai vent’anni.
Quindi tre adesso sono le macro-direttrici in cui mi muovo.
La prima è quella che ruota intorno alle attività che riguardano il dover far comunicare le aziende con le persone. Queste attività esplodono in mille direzioni a seconda dei punti di contatto tra i due soggetti dialoganti. Gli ambienti digitali sono il principale terreno di movimento, ma con ricadute importanti anche su quelli fisici. Mi occupo di strategie, ma anche di operatività. Lavoro come freelance con i miei clienti e/o per progetti spot, ma lavoro anche a stretto contatto con il team digital di un’agenzia di Catania, +Add Design, di cui seguo le attività del reparto.
La seconda riguarda la formazione e la docenza. Formazione in workshop e convegni di settore, la docenza con l’insegnamento in Storia e Teoria dei Nuovi Media presso Abadir Accademia di Design e Comunicazione Visiva e in Master Universitari quando se ne presenta l’occasione.
La terza attiene ai progetti personali che nascono e muoiono negli anni o che durano nel tempo come Una cosa al giorno https://www.unacosaalgiorno.it/ che è una newsletter nata nel marzo del 2014 e che per il suo decennale ha preso anche altre forme. Una guida e una mappa cartacea per Perdersi in Rete e soprattutto un quotidiano generatore casuale di link per persone curiose. Ma anche micros – un festival piccolissimo che è uno spazio in cui riesco a pensare oltre il lavoro.
Come hai strutturato il tuo “Dire qualcosa non vuol dire avere qualcosa da dire” e a chi si rivolge?
Come scrivo nella introduzione, questo libro nasce dopo anni di attività senza l’urgenza del presente. Non è un libro sull’oggi, perché sarebbe già finito ieri con la velocità con cui va il nostro mondo. Allora ho messo in fila una serie di “appunti” e “riflessioni” che – secondo me – potessero durare. Li ho organizzati in capitoli e sviluppati partendo dal titolo che è una slide che ho usato e che uso da anni. Dentro ci sono molti dei ragionamenti fatti in questi anni di workshop, formazione, consulenza, operatività. Si rivolge a chi non vuole imparare qualcosa da mettere in pratica, ma vuole farsi domande, attivare dubbi, tracciare proprie rotte in tutte quelle attività che riguardano, appunto, la comunicazione tra aziende e persone. Scrivendolo poi, e una volta finito grazie ai feedback, mi sono reso conto che molte delle cose scritte valgono anche per la comunicazione mediale tra persone.
Quali sono a tuo avviso i bias più insidiosi per chi cura la comunicazione aziendale?
Questa è facile: che abbiamo sempre qualcosa da dire. Che dobbiamo sempre dirla. Che se non la diciamo non esistiamo.
E, come dicevo sopra, questo vale anche nella comunicazione mediale tra persone.
Sono proprio stufo di sentire dire che “oggi” (“un eterno presente che capire non sai”, cit.) una azienda non esiste se non è sui social (ad esempio). Io (ma come spiego nel libro non sono certo l’unico) dico che è l’esatto contrario: se oggi la tua azienda esiste solo perché sta sui social ha un problema, un problema grosso.
E questo non è forse vero anche per le persone? Se oggi il nostro mondo è soprattutto digitale non ci stiamo perdendo forse una parte importante? Idem se rovesciamo la medaglia: se si decide – legittimamente – di agire e interagire solo in maniera fisica, non stiamo lasciando indietro tutte le possibilità che il digitale ci offre?
Un altro problema sono le CTA ovunque: crediamo veramente che dicendo di dover fare qualcosa, sempre, ciò avverrà? La risposta che ormai sappiamo da anni è no. Però, che sia “seguimi” o “compra ora” o “iscriviti” o qualunque altro esempio, non facciamo altro che trattare da stupidi le persone con cui interagiamo. Sto proponendo di abolire le CTA? No, ma di valorizzarle utilizzandole dove realmente serve senza abusarne.
Questo vale per le aziende, ma vale anche per le persone, i creator, gli influencer e via dicendo. È mai possibile che se decido di vedere un tutorial su YouTube (esempio che vale ovunque) dopo 5 secondi ci sia uno stacchetto che dice “Stai guardando questo video, ma probabilmente non ci segui. Per te non conta nulla, ma per me è importante se mi segui” o qualunque altra formula odiosa? Lo saprò che se sono su YouTube ti posso seguire o meno, o no? Qui qualcuno potrebbe obiettare che i nostri feed ormai sono “suggested” per cui uno non sa mai se già segue o meno, io rispondo: rispetta l’intelligenza di chi vede il tuo contenuto.
Mi fermo, l’elenco è lungo, purtroppo.
Qual è l’approccio giusto per capire i focus su cui concentrarsi su quello che serve?
Non lo so. Voglio essere chiaro e netto: non esistono approcci giusti sempre, esistono gli approcci giusti per te.
Nel libro scrivo una cosa analoga per le strategie: se una strategia va bene per tuttə, non sarà poi così strategica.
Non sarà che Google “funziona male”, perché la gente non sa cosa pubblicare sul web?
Premesso che per rispondere a questa domanda bisognerebbe avere un po’ di dati, non mi sottraggo dicendoti che la quantità da sempre danneggia la qualità. Per qualunque cosa e quindi anche sui contenuti.
Non so se Google funziona male perché Google non è solo quello che vediamo nelle nostre ricerche, ma anche quello che vede ogni singola persona che lo usa. Io non percepisco questo peggioramento, ma certamente – se ti riferisci ai contenuti generati dall’Ai – possono ingolfare i risultati se questi contenuti sono pensati male e pubblicati peggio. E cosa far scrivere ad una AI e pubblicarne il contenuto è frutto di intelligenza umana.
Anni fa si pensava che attivando scambi link tutto si fosse risolto, non era così. Non sarà così neanche ora.
In ultimo, ci lasci qualche link per restare aggiornati sull’argomento?
Ma guarda io leggo soprattutto newsletter e libri.
Sulle newsletter posso dirti che quella di Gianluca Diegoli, Vincenzo Cosenza e Giorgio Taverniti sono le più preziose. Non ne sto citando tante altre di amici e colleghi che stimo tantissimo (e che nei ringraziamenti del libro ho voluto mettere in fila. Quello è un bel folto punto di partenza).
Sui libri ti dico l’ultimo di Enrico Marchetto, Confessioni di un marketer e In principio era ChatGpt di Mafe De Baggis e Alberto Puliafito. Sono entrambi dei libri che hanno qualcosa da dire, che attivano pensieri, che propongo prospettive.