Da quando si è diffusa l’idea che Google offre visibilità ai soli progetti editoriali legati a un brand forte, ne ho letteralmente sentite di tutti i colori sulle oscure presunte macchinazioni dei poteri forti che terrebbero conto solo di certi player già “avvantaggiati”, ponendo ostacoli insormontabili verso tutta quella grande mole di micro imprenditori che sviluppano progetti editoriali ormai relegati a posizioni di assoluta invisibilità nelle serp organiche. Ma come stanno veramente le cose? Viviamo davvero in un mondo meno meritocratico di prima a causa delle oscure trame di chi nella stanza dei bottoni avrebbe “ucciso” la ricerca web?
Ogni volta che tento pubblicamente di lanciare spunti su come affrontare le ultime evoluzioni nel mondo della ricerca, leggo voci che si sollevano, quasi riottose, per denunciare che se per colmare il divario con i grossi brand occorre ripensare completamente la comunicazione, agendo su più canali, con formati precisi e con attitudine relazionale nuova, allora per forza di cose solo certe aziende potranno permettersi di stare al passo, mentre per tanti altri ci sarà una barriera all’ingresso sostanzialmente impossibile da superare.
E facciamo due considerazioni:
- le stesse microimprese che oggi si lamentano del fatto che Google dà retta solo ai big brands, sono quelle che hanno passato il 2023 a inondare l’internet con milioni di pagine web sviluppate a ritmi di 400 articoli al mese – moltiplicate per XXXXXX siti web, messi online dalla sera alla mattina usando le API di chatGPT. Avete inquinato l’universo peggio di come fanno i pubblicitari alla TV e ora vi lamentate che Google si è rotto.
- Indipendentemente da quanto ho appena detto, quindi lasciando perdere l’idea che Google funzioni più o meno bene, in un mondo digitale che ormai vede la comunicazione ridotta a intrattenimento, peraltro a ritmi serratissimi e quasi stordenti, quanto pensi di poter andare avanti limitandoti a scrivere l’articolo sul blog?
Perché è proprio questo modello comunicativo ad essere andato in crisi. Beninteso, non mi riferisco a TUTTO il blogging, ma a tutto quel blogging che mira a risolvere immediatamente un problema. Ad esempio è già da diversi anni che i foodblogger stanno facendo i conti con il formato reel / short che in 30 secondi di video evade tutte le parti della preparazione di un piatto. Chi vuole fare foodblogging oggi, non può tralasciare la produzione di questo tipo di contenuti, altrimenti verrà automaticamente a trovarsi dentro quella gigantesca bolla di contenuti testuali tra i quali Google non sa e non vuole più scegliere.
E quindi servono i soldi?
Una delle cose che in questo scenario mi indispone, per non dire altro è che tutte le volte che faccio notare quanto ho appena detto, arrivano utenti a commentare che dunque il web ora sarebbe meno meritocratico e che in particolare, ora sarebbe appannaggio solo di quelle aziende che possono permettersi agenzie multiservizi, con attori, allestitori di set, montatori e videomaker.
A queste persone devo dire intanto che sì, basta prendere in mano uno smartphone per accorgersi di quanto ormai per tante ricerche web, l’idea di cavarsela scrivendo un blogpost sia fondamentalmente anacronistica, ma da questo a dire che ora il web è solo per le aziende che se lo possono permettere, significa chiudersi in un eremo da cui si ha paura di uscire, perché venirne fuori significherebbe cambiare di una virgola il proprio modo di affrontare le cose.
È vero che occorre cambiare passo ed è vero che il web somiglia sempre più alla televisione, ma ciò detto, non c’è bisogno di reinventare la ruota per stare al passo con i tempi e di certo non serve investire come se dovessi lanciare un canale televisivo negli anni ’80.
Tra l’altro viviamo anche nell’era dell’intelligenza artificiale, dunque potremmo imparare a usarla per mille cose davvero utili all’interno di una strategia di marketing digitale… invece di continuare a farle scrivere articoli di blog.