Oggi parliamo con Alberto Mattiacci Professore Ordinario di Economia alla Sapienza, coordinatore executive program in Marketing, Luiss Business School. Ho avuto il piacere di confrontarmi con lui quando siamo stati entrambi ospiti del canale Automatiking.
L’approccio al marketing di Alberto è molto diverso da quello di noi “scappati di casa”, per questo mi sembrava doveroso condividerlo con voi… hai visto mai, dovessimo imparare qualcosa. 🙂
Ciao Alberto, ci racconti i tuoi attuali focus lavorativi?
Ciao Francesco. Difficile sintetizzare tutto, provo così.
Io mi occupo, fondamentalmente, di studiare il cambiamento sociale, economico e politico del Paese, adottando una prospettiva di osservazione speciale: il mercato e i suoi attori.
Applico questo approccio a tutte le attività che svolgo, ovviamente adattando i risultati al caso specifico: ricerca scientifica (il mio progetto principale attuale è sul cambiamento dei consumi degli italiani), didattica (insegno nei miei corsi a capire il domani per aiutare le imprese ad evolvere i propri comportamenti e i giovani ad acquisire metodo), manualistica (scrivo testi didattici che guardino avanti), saggistica (ho una rubrica settimanale in prima pagina di Leggo, una mensile su Harvard Business Review). Una parola speciale merita Rapporto Italia Eurispes, che curo come Presidente del Comitato Scientifico e che ogni anno fornisce rappresentazioni analitiche del paese alle sue classi dirigenti istituzionali.
In parallelo, come consulente d’impresa, sono specializzato nell’organizzazione di modelli di business innovativi, fondati sulla relazione diretta con il cliente e il brand -un campo in grande espansione, soprattutto nelle piccole e medie imprese. Poi ho una grande passione: il vino. Me ne occupo da oltre vent’anni, in varie forme e attualmente curo un importante progetto culturale di Fondazione Banfi che si chiama Sanguis Jovis. Ho anche l’onore di rappresentare le produzioni a denominazione d’Italia in un tavolo tecnico presso l’Unione Europea.
Come si sviluppa la nuova edizione di “Marketing. Il management orientato al mercato”
È la riedizione di un libro di otto anni fa. Siamo stati lungamente in dubbio se fare una nuova edizione o meno, soprattutto perché non eravamo certi che la nuova didattica universitaria fosse ancora bisognosa di un prodotto come un manuale. Poi, anche confrontandoci con gli studenti, abbiamo capito che oggi, forse più di ieri, un manuale serve. Un manuale accademico ha delle caratteristiche: fissa la teoria accreditata sulla materia in quel momento (le teorie cambiano per definizione), offre una visione completa del panorama dei problemi rilevanti per la materia, cerca di aprire la mente al lettore.
Il libro si sviluppa su 7 parti e 23 capitoli, per circa 600 pagine in tutto. Non è concepito per essere letto a flusso ma offre al lettore numerose chiavi di lettura ed entry point indipendenti. Faccio un esempio: chi è interessato a farsi un’idea su come conoscere il consumatore, può affrontare il capitolo 5 (che illustra le forme della domanda e le ragioni di rilevanza per il business), il sesto (che illustra come il consumatore sia cambiato e quali modelli di analisi si possano adottare), il terzo (che fornisce gli strumenti operativi).
Consapevole che parlo da oste che magnifica il proprio vino, voglio dire che il libro è originale e innovativo. Non ci siamo appiattiti sulla manualistica statunitense (che rispettiamo ma considero inadeguata all’Italia), non abbiamo ripetuto stantii modelli superati (come le 4P) ma abbiamo avuto il coraggio di dare una rappresentazione nuova, italiana e intrisa dei nuovi imperativi socioeconomici: il rispetto e la sostenibilità, l’innovazione e la digitalizzazione, l’apertura e la globalizzazione.
Il marketing deve misurare o comprendere?
Le due cose non sono alternative ma momenti differenti di uno stesso percorso.
Le misure servono a dare il senso della sostanza delle cose: la magnitudine dei fenomeni, le loro dinamiche, le relazioni ipotetiche fra le variabili che li compongono. I numeri vanno rispettati: questo significa non affidare loro compiti che non possono sostenere per loro stessa natura. Ogni misura ha dei limiti, dovuti alle condizioni metodologiche con le quali è prodotta. Ogni misura va interpretata e questo implica saper maneggiare i dati e avere onestà interpretativa nel farlo. Chi dice che i numeri dicono tutto sul mercato, o non ha capito o è in malafede. Il mercato è un aspetto speciale dell’esistenza umana ed è fatto di e dalle persone. Non tutto ciò che è umano è misurabile, quindi occorre supportare i numeri con altri tipi di conoscenza. Ci vuole cultura, passione e umiltà. Purtroppo osservo che sempre più spesso nelle aziende si è imposta una visione dell’intelligence di tipo finanziario, anche a causa della digitalizzazione che, per sua natura, esprime dati. Molti, troppi, pensano che masticare un bel po’ di dati dica tutto.
Noti cambiamenti di attitudine nei tuoi studenti anno dopo anno?
Dipende dall’arco di tempo che consideriamo. Se guardo a dieci anni fa, per esempio, il cambiamento è sensibile. In generale, oggi mi pare che gli studenti possano essere suddivisi in due coorti: da una parte quelli attrezzati (dalla famiglia, non dalla scuola) al domani, dall’altra quelli che non hanno capito. Non è una distinzione che coincide con le classi sociali di riferimento o la geografia ma con l’attitudine mentale. Vedo ragazzi/e formidabili (un 20% a spanne) condividere le aule con gente che pensa che un pezzo di carta, comunque preso (meglio se con scorciatoie), alla fin fine li risolverà. Ah, questi qua manco parlano le lingue e all’estero ci sono andati per fare festa (in Spagna e/o Grecia) e basta.
L’università in cui insegni, riesce a costruire ponti con il mondo del lavoro?
Discorso complesso. Diciamo che quando si parla di questo tema si tende ad addossare ogni onere all’università, nel senso che starebbe a lei essere capace di creare relazioni con le imprese, di offrire ciò che esse desiderano, di formare persone formidabili (anche se ti arrivano dalla scuola in condizioni culturali pietose), poliglotte (senza disporre di fondi appena sufficienti) e flessibili. Nella mia esperienza le imprese sono spesso viziate da questa idea: stanno lì ad aspettare, con il nasino all’insù, pronte a prendere e chiedere, “ovviamente” pretendendo gratuità assoluta per ogni prestazione.
La mia università fa molto, laddove ci sono impiegati e docenti che si impegnano, fa poco, laddove vi sono impiegati incartapecoriti sulle procedure e i maledetti lacciuoli amministrativi e docenti incapaci di dialogare con le imprese.
Comunque io penso che le università vadano liberate dal giogo del valore legale del titolo di studio e delle regole di finanza pubblica. Questo cambierebbe in meglio le cose.
In ultimo, ci lasci qualche spunto per approfondire il tuo approccio al marketing management?
Odio il termine marketing. È una parola che ha ormai assunto stabilmente, nel nostro paese, dei significati negativi, spesso pregiudiziali, che non aiutano. Penso che ciò di cui il marketing si occupa, che io chiamo “fare mercato e prodotti di valore per il mercato”, sia invece una competenza e un’attitudine decisiva per il futuro. Io credo nell’impresa come soggetto positivo del cambiamento e dell’evoluzione delle persone e della società. L’impresa è una comunità di persone, che deve essere gerarchicamente organizzata e con ruoli decisionali distribuiti, capace di agire nel rispetto delle sensibilità dei tempi (es l’ambiente), delle persone (es. il rispetto del life-time balance) e dell’impresa stessa (es. essere attentissima ai conti). Ecco, un’impresa dotata delle conoscenze e attitudine al mercato è quella che riesce ad essere un attore positivo per la società e per la comunità di persone che vi lavorano. È dove auguro ai miei studenti di andare a lavorare (o di crearsela, se ne hanno voglia).