Brand Journalist, di Mariagrazia Villa

«È un libro che ho amato molto scrivere, ma che non ho mai promosso.
Eppure, lui ha saputo andare oltre la sua scriteriata autrice e conquistare parecchi cuori
». Con queste parole Mariagrazia Villa – Docente di “Etica dei media” allo IUSVE, giornalista del Constructive Network e TEDx Speaker – descrive il successo di Brand Journalist, un testo uscito per Franco Angeli nel 2023.

Di seguito le sue risposte alle mie domande.

Ciao Mariagrazia, ci racconti i tuoi attuali focus lavorativi?

Il mio attuale focus lavorativo è sull’etica della comunicazione, materia che insegno allo IUSVE di Venezia e Verona da una decina d’anni, e sul giornalismo costruttivo, facendo parte del Constructive Network, la rete italiana dei professionisti dell’informazione che crede in un approccio orientato alle soluzioni. Sia l’etica della comunicazione sia il giornalismo costruttivo rientrano, a tutti gli effetti, nel brand journalism: il buon giornalismo d’impresa, infatti, che ha il compito di raccontare il mondo che ruota attorno alla marca, utilizzando tutti i mezzi e le tecniche del giornalismo tradizionale, deve essere svolto in modo moralmente qualificato e possedere uno sguardo che costruisca valore per il pubblico.

Come hai strutturato il tuo libro “Brand Journalist” e a chi si rivolge?

Il mio libro “Brand Journalist” nasce dal desiderio di raccontare una figura professionale spesso non adeguatamente riconosciuta nel nostro Paese, rispetto al giornalista tradizionale e al comunicatore d’impresa. Eppure, è fortemente richiesta dal mercato perché le aziende hanno sempre più bisogno di professionisti capaci di comprendere quali siano le informazioni più rilevanti da comunicare e di saperle narrare ai pubblici di riferimento con storie interessanti, emozionanti e arricchenti in termini di valore. Il volume si rivolge a coloro che, giornalisti o meno, già lavorano come reporter della marca perché consente loro di approfondire nozioni e abilità utili per la professione, così da perseguire gli obiettivi dell’azienda, conservando una giusta e produttiva tensione verso il bene dei lettori. Ma è indirizzato anche ai giornalisti classici e ai comunicatori che vogliono esplorare e conoscere un nuovo mestiere, per coglierne le opportunità e apprenderne le competenze necessarie.

Quali sono le skills tecniche richieste a chi si occupa di brand journalism?

Le principali competenze tecnico-professionali che un brand journalist può acquisire con lo studio e con la pratica appartengono a due grandi ambiti: il giornalismo, da un lato, la comunicazione d’impresa, dall’altro. Nel primo gruppo, abbiamo principalmente: curiosità e fiuto per le notizie, propensione a verificare fonti e dati, capacità di comunicare in modo multimediale, soprattutto online. Nel secondo, troviamo: conoscenze di content marketing, storytelling, information design, strategie editoriali, social network editing, blogging, analisi e misurazione dei contenuti, relazioni pubbliche, brand reputation management. Occorre aggiungere, però, che in questo mestiere le soft skills, come le competenze relazionali e comunicative, la flessibilità e l’atteggiamento positivo, l’attitudine al team, l’etica professionale e l’integrità morale, sono importantissime: permettono di muoversi con sicurezza in un ambiente professionale estremamente complesso e sfidante come quello di un’azienda, di trattare efficacemente con gli altri, di lavorare bene e perseguire con più facilità gli obiettivi.

Quali sono i canali digital più adatti a veicolare messaggi facendo giornalismo sul brand?

Tutti gli asset digitali di un brand si rivelano canali adatti al giornalismo aziendale: il sito corporate, se è pensato come uno strumento di informazione, e non solo come una vetrina istituzionale; il brand magazine o il blog, se strutturati alla stregua di un periodico; i social network; la newsletter; le app per dispositivi mobile; i white paper o gli e-book, se scritti con un taglio giornalistico. Di tutti questi strumenti, il brand magazine – che può essere anche cartaceo, non solo digitale – è senz’altro il cardine dell’ecosistema editoriale della marca. È un’evoluzione del classico house organ, ma si presenta come un prodotto di natura diversa che si rivolge a un pubblico esterno all’azienda: è una testata giornalistica a tutti gli effetti, con un direttore responsabile alla guida, articoli pubblicati a periodicità regolare, un titolo identificativo e una diffusione di informazioni legate all’attualità.

Quali sono i rischi di un’attività di questo tipo gestita male?

Il rischio principale è di scambiare il brand journalism per una tecnica di vendita: l’obiettivo del giornalismo della marca non è spingere le persone ad acquistare un prodotto o servizio, ma migliorare la loro conoscenza e consapevolezza di determinati fatti o fenomeni. Come ripeto spesso: il miglior brand journalism è quello che non sa di brand. Strategicamente, risulta molto più efficace per l’immagine e la reputazione dell’azienda. Il suo scopo, infatti, è di fare in modo che il brand diventi una fonte accreditata di notizie in un determinato ambito e un thought leader affidabile, da cui si possono ricevere stimolanti e costruttivi punti di vista sulla realtà.

In ultimo, ci lasci qualche link per restare aggiornati sul tema?

Mi sento di consigliare di seguire i tanti brand magazine che sono nati in questi anni e che rispettano l’idea portante del giornalismo d’impresa: mai promuovere qualcosa, ma fare sempre informazione. Per esempio: Aboca Live Magazine, promosso dall’omonima healthcare company, non parla di prodotti, ma approfondisce i temi legati al rapporto uomo-natura; Fine Dining Lovers del Gruppo Sanpellegrino è un raffinato foodie magazine che recensisce il meglio della cucina italiana e non solo; Fold della Moleskine è una rivista digitale su Instagram, dedicata all’arte e alla creatività a 360°; Italianshoes di Assocalzaturifici è un magazine che racconta l’alto artigianato italiano nel settore calzaturiero e il mondo della moda, tra curiosità storiche e nuovi trend.

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