Giuseppe Mayer è il CDO del Gruppo Armando Testa, quindi un professionista di caratura internazionale nel campo della comunicazione digital e allo stesso tempo della pubblicità tradizionalmente intesa.
Avendo avuto la fortuna di incontrarlo a Firenze nella sede di Impact Hub, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di fargli qualche domanda, intanto trovando una disponibilità che molti professionisti decisamente meno “scafati” di lui non hanno. Eccoti le sue risposte sui temi del branding tra piccola e grande impresa.
Ciao Giuseppe, su cosa sei concentrato ultimamente?
Ovviamente il mio primo pensiero sono i clienti con cui lavoriamo in Armando Testa su progetti di innovazione e digitale; sono brand importanti per i quali realizziamo campagne sia a livello nazionale che globale. Un discreto impegno direi e una grande soddisfazione.
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Parallelamente cerco di tenermi costantemente aggiornato su quelli che sono i trend più importanti legati alla trasformazione digitale; mi affascina l’impatto che nuove tecnologie abilitanti possono avere sul business di ogni giorno e per questo studio, e investo, in startup che si occupano di fintech, IOT, blockchain e soprattutto AI.
A parità di budget, che differenza c’è tra fare branding per una piccola e una grande impresa?
L’unica grande differenza, a parità di budget, è la storia di comunicazione che la grande impresa può portare. Paradossalmente in ambito digitale anche questo ha agevolato negli ultimi anni proprio le aziende più piccole che hanno potuto sperimentare i nuovi canali senza timore di andare a “sporcare” l’immagine di brand. In definitiva ogni brand deve provare a raccontare la propria storia per connettersi con i propri clienti; su canali liquidi come quelli più innovativi si tratta, ancora oggi, di fare molti test, prove ed errori per arrivare poi concretamente a definire la propria identità digitale, non frammentata.
In che rapporto sono TV e web rispetto alla comunicazione di un brand? e in generale?
Se in passato il digitale ha subito il fascino della televisione, in molti casi vedendo come profili di serie b chi si occupava principalmente di digitale, oggi siamo in una fase di maturità del mercato per cui i rapporti tra i due canali sono puramente “funzionali”. La Tv continua ad essere il media principe per riuscire ad incidere in breve tempo su larga parte della popolazione (anche se questa popolazione è sempre meno generalista), mentre con il digitale si può andare oltre la semplice distribuzione di un messaggio per realizzare esperienze personalizzate e di valore capaci davvero di creare un legame emotivo forte tra brand e clienti.
Quali sono i passi per costruire una reputazione solida? E come la si comunica?
Si dice che Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, abbia descritto la reputazione come “quello che dicono di noi, quando non siamo nella stanza”. Chiaro che con il digitale questa stanza si espande notevolmente; non è più solo il nostro negozio, ma è anche il nostro sito, le nostre presenze digitali etc etc. Costruire una reputazione significa allora riuscire ad orchestrare tutti questi possibili touchpoint sia in ottica di comunicazione del messaggio di marca, sia, e forse in molti casi soprattutto, come ascolto delle conversazioni dei nostri clienti.
Capire quando parlano di noi cosa dicono, quando sono interessati alla nostra offerta come la commentano sono tutti tratti distintivi che bisogna imparare ad intercettare per puntare a rispondere in modo preciso e contestuale alimentando un senso di sicurezza e affidabilità del brand che oggi si costruisce attraverso le esperienze più che attraverso gli slogan.
È vero che il web dimentica tutto in fretta o ci sono passi falsi più “falsi” di altri?
Forse era vero qualche anno fa quando la percentuale di popolazione online era decisamente più bassa e gli impatti che poteva generare su un brand erano inferiori, ma se oggi penso ai brand boicottati perchè sponsorizzano un particolare programma TV o a quelli che perdono da un giorno all’altro la loro clientela per una cattiva recensione mi pare evidente che non sia così semplice il discorso.
È chiaro che il digitale è una parte della vita di questi brand, ma è altrettanto chiaro che nel giorno per giorno dei nostri clienti questa parte è sempre più centrale e si avvia a diventare determinante per costruire relazioni di valore.
Una piccola azienda può fare comunicazione in casa o è meglio esternalizzare?
Anche qui purtroppo la risposta migliore è dipende; diciamo che quanto più la componente di comunicazione, nel packaging o in altri aspetti, è centrale nella definizione del prodotto o del servizio offerto, tanto più vale la pena internalizzare questa funzione.
Ma sarebbe lo stesso discorso per altre competenze verticali (come l’ecommerce o il media); credo che il punto centrale qui sia capire se il processo di creazione e sviluppo di una strategia di comunicazione possano o meno alternare in modo significativo il valore percepito e conseguentemente il prezzo dell’offerta.
In generale mi sentirei di dire che è buona norma tenere in casa tutto ciò che strategicamente è in grado di rappresentare il valore aggiunto di una azienda.