Diego Fontana, copywriter, docente, autore. Ha creato campagne per Carlsberg, Aprilia, Maserati… e ha scritto diversi libri. L’ultimo, edito da Franco Angeli nel 2025, s’intitola “Dalla penna a prompt, il copywriting oggi tra creatività e tecnologia”. Di seguito puoi leggere le risposte alle mie domande. Una delle risposte di Diego è stata data dall’intelligenza artificiale. Indovina quale?
Ciao Diego, ci racconti i tuoi attuali focus lavorativi?
Ciao,
in questo momento la mia vita lavorativa è suddivisa in parti pressoché simmetriche, tra la direzione creativa di AUIKI, un’agenzia di comunicazione che ha sede a Reggio Emilia, e le docenze per IED, IUSVE e altri istituti. Dopo gli anni importanti e formativi delle grandi sigle multinazionali e quelli del percorso personale con il mio studio TERRA, credo di essere finalmente approdato a quell’equilibrio che inseguivo da anni.
Le docenze sui temi della comunicazione e della creatività mi appassionano sempre molto, mi costringono a rimanere aggiornato, mi aiutano a confrontarmi con problematiche di frontiera – che ogni giorno portano le ragazze e i ragazzi nelle aule scolastiche – mentre la direzione creativa di una sigla indipendente, che ha ancora tanta voglia di dimostrare che si può fare un ottimo lavoro, pur non essendo radicati a Milano (città che in Italia consideriamo un po’ la casa dell’advertising), mi consente di confrontarmi con sfide interessanti, in un clima più umano e costruttivo di quanto non accade in altri ambienti.
Il rapporto tra docenza e progettazione mi nutre molto: come docente, mi stimola a portare in aula dinamiche concrete, tratte dalla sfera professionale, per aiutare studentesse e studenti a crescere; come professionista, mi aiuta a smontare i processi creativi e ad avere una consapevolezza profonda dello sviluppo progettuale, anche in ottica, per esempio, del racconto di una campagna a un cliente.
Inoltre, naturalmente, c’è anche la bellezza di chiudere cerchi: di recente per esempio è entrato a far parte di AUIKI un art director junior che ho accompagnato nella sua crescita di studente. Contando che è poco più che ventenne, è sorprendente come si sia adattato da subito alle dinamiche dell’agenzia, apportando entusiasmo e competenze reali, che abbiamo potuto mettere da subito in circolo sui progetti.
Forse è stato un poco aiutato anche da Reggio Emilia che – lo dico da reggiano solo di adozione – è un luogo più smart di quanto non si racconti: l’unica cittadina in Italia che ti permette di essere a Milano in 50 minuti e contemporaneamente a Firenze in un’oretta.
Come hai strutturato il tuo “Dalla penna al prompt” e a chi si rivolge?
“Dalla penna al prompt” è il terzo libro che scrivo per FrancoAngeli. Inizialmente, per la verità, doveva essere semplicemente l’aggiornamento di “Digital copywriter”, un testo del 2017 che ha avuto un’accoglienza di pubblico molto più fortunata di quanto ci si potesse aspettare da un manuale. Pur contenendo metodi di lavoro che considero eternamente validi, il libro cominciava per altri versi a suonare un tantino vintage in alcuni paragrafi: dava, per esempio, molta centralità alla piattaforma Facebook, che in questi anni ha imboccato un’inesorabile parabola discendente.
Ma la discontinuità più significativa è ovviamente rappresentata dal materializzarsi dell’intelligenza artificiale generativa, che viene a modificare il paesaggio della comunicazione con conseguenze ancora tutte da esplorare e dibattere. Così mentre rielaboravo i capitoli di “Digital copywriter”, mi rendevo conto che le novità da includere erano troppe e troppo importanti; e che l’impianto stesso del volume – il
fluire dei capitoli – non era più coerente con gli argomenti che mi interessava sottoporre alla community dei copywriter, dei comunicatori e dei creatori di contenuti in genere.
In breve mi è stato chiaro che stavo scrivendo un nuovo volume, con una coerenza interna e una identità proprie. Così ho fatto un bel respiro e sono ripartito dall’indice, vale a dire dall’organizzazione che gli argomenti avrebbero dovuto avere per risultare utili al lettore. A quel punto ho ricominciato a scrivere; questa volta con l’idea chiara di sviluppare un testo a sé stante, che evolve dallo sviluppo della creatività fino a toccare materiali via via più attuali e futuribili, come il dialogo creativo con le macchine.
Il titolo del tuo libro sembra suggerire un passaggio epocale: dal gesto antico e personale della scrittura al comando algoritmico del prompt. Qual è, secondo te, il filo rosso che collega questi due mondi apparentemente lontani?
Il titolo è stata la cosa più difficile da scrivere: quello che abbiamo scelto insieme alla casa editrice – dopo un estenuante dibattito – era nato in realtà come l’umile sottotitolo di una delle tante proposte.
Il libro vuole restituire al mestiere del copywriter una bussola possibile in un tempo incerto, fatto di rivoluzioni convulse, che talvolta sembrano condannare questo mestiere alla più totale irrilevanza. Lo sguardo è quello di un manuale molto pragmatico e concreto, che tiene insieme metodo, critica e visione.
Il filo rosso è senza dubbio il concetto di «conversazione»: se la rivoluzione digitale ha portato al centro del dibattito il tema della conversazione tra marche e pubblico («I mercati sono conservazioni», ricordate?), ora le intelligenze artificiali sembrano suggerire una nuova modalità di conversare: quella tra creatori di contenuti e macchine, le quali saranno sempre meno esecutrici passive di comandi, e diventeranno con ogni probabilità parte sempre più attiva nella progettazione.
Lo dico meglio. Così come le marche, con l’avvento del digitale, hanno dovuto accettare di perdere parte del controllo nei processi di comunicazione, che sono diventati via via più complessi e simili a conversazioni con apporti da entrambe le parti (le marche e il pubblico, che da target passivo è diventato creatore esso stesso di contenuto), allo stesso modo è probabile che anche i creatori di contenuti, oggi,
debbano iniziare a considerare l’idea di perdere parte del controllo, accettando che creare significhi conversare con macchine in grado di prendere decisioni, proporre punti di vista e apportare parte del valore.
Nel libro parli di un contesto in rapidissima trasformazione — dal declino dei social storici fino all’avvento dell’AI generativa. In mezzo a questo vortice, quali sono i principi di copywriting che ritieni davvero “senza tempo”?
Credo che, al netto di qualsiasi rivoluzione tecnologica, i principi che restano davvero senza tempo siano essenzialmente tre:
L’ascolto profondo delle persone, cioè la capacità di cogliere non tanto quello che dichiarano, ma quello che desiderano davvero, talvolta senza saperlo.
La ricerca di un’idea centrale, fertile, che sappia nutrire un progetto e mantenerlo coerente internamente anche se cambiano il formato, il canale o la piattaforma su cui quel progetto si esprimerà e verrà diffuso.
L’attenzione al linguaggio e la sensibilità per la bellezza. Perché ogni parola porta con sé un mondo di risonanze culturali, emozioni, possibilità. Un linguaggio povero e brutto, scritto solo con l’idea di «funzionare» produce una società povera e brutta, che ha come unico mantra quello di funzionare. La domanda diventa: e se non fossero tanto le macchine, ad assomigliare sempre più alla specie sapiens, quanto piuttosto il contrario? Forse stiamo vivendo anni in cui è la specie sapiens che, rinunciando a
nutrire la curiosità, la sensibilità, l’attenzione alla bellezza, il saper vivere, sta mutando sempre più in una grande massa robotizzata. Ecco, mi piacerebbe che i copy riuscissero a essere un elemento dialettico in questi processi, un punto di frizione in grado di porre domande e non solo di: «eseguire compiti».
Molti temono che l’intelligenza artificiale possa “sostituire” la creatività umana. Nel tuo libro invece, sembri suggerire un approccio di dialogo e integrazione. Qual è secondo te, il ruolo realistico dell’AI nel lavoro creativo nei prossimi cinque anni?
L’AI generativa è entrata nelle nostre vite come un enigma: da un lato è l’ennesimo materializzarsi di una brama antica, che ciclicamente viene a impossessarsi dell’umanità: il desiderio infantile e cieco di un’efficienza illimitata, che ci riporta per esempio agli anni del positivismo e della fede acritica nel progresso (gli anni che produssero il Titanic, giusto per indicare un simbolo piuttosto chiaro); dall’altro è il
perfetto spettro apocalittico, concretizzatosi negli epici 4 cavalieri portatori di distruzione:
• Deepfake, ovvero fine della possibilità di distinguere il vero dal verosimile e del fragile patto tra società e organi di informazione.
• Roboto, ovvero fine dell’importanza dell’esperienza umana nella realizzazione di produzioni culturali.
• Assistant, la fine dell’autonomia. Progressiva dipendenza da tecnologie, con un conseguente impigrimento delle facoltà umane e della capacità di prendere decisioni senza un apparato tecnologico.
• BrainRot, ovvero fine del senso. Quando posso produrre qualsiasi contenuto, nessun contenuto ha più valore. Si genera un vuoto di significato, dove niente crea più tracce durature e nutrienti per l’umanità. Niente vale più la pena di essere fruito.
Se gli apocalittici vedono l’AI come la fine della creatività umana, gli integrati rischiano forse di sconfinare in un entusiasmo acritico, che esclude il più che doveroso dibattito sulle problematiche implicite di questa tecnologia. Non a caso nel libro paragono l’AI a Godzilla: un mostro multiforme che a volte appare come distruttore assoluto, altre come forza evolutiva che obbliga l’umanità a rivedere i propri principi. Come Godzilla, l’AI ci mette di fronte a paure profonde, ma anche a possibilità di crescita inaspettate.
La verità potrebbe forse stare nella capacità di integrare lo strumento in un percorso consapevole. Si tratta dunque di attivare fortemente percorsi di consapevolezza.
Nei prossimi cinque anni voglio immaginare un’AI che non sostituirà la creatività umana, ma la accompagnerà: spero sarà un partner da interrogare, con cui dialogare, per generare nuove associazioni e stimoli. Resta a noi, artigiani della parola, il compito di custodire il senso critico e la responsabilità delle scelte creative. Essere creativi, forse, vorrà anche e sopratutto dire: elevare la qualità delle nostre domande.
Se dovessi dare un consiglio al giovane copywriter che inizia oggi, immerso tra social in declino, piattaforme in mutazione e AI ovunque, quale sarebbe il primo strumento — mentale o pratico — che dovrebbe imparare a padroneggiare?
Chi comincia oggi, come copywriter, si trova immerso in un paesaggio instabile e schizofrenico: social che appassiscono, piattaforme che si trasformano, algoritmi in perenne stato di aggiornamento, intelligenze artificiali che forniscono scorciatoie, ma ti rendono anche più pigro, dipendente da tecnologie esterne e interscambiabile con qualunque altro professionista: se l’AI ci fa scrivere contenuti identici, perché qualcuno dovrebbe dare lavoro proprio a te?
In mezzo a tutto questo, credo che il primo vero strumento da imparare a padroneggiare non sia una tecnica o un software, ma la capacità di coltivare senso critico e autocritico. Invece di inseguire eternamente un algoritmo imbizzarrito, credo serva imparare a guardare più dentro la propria differenza: quello che ti rende unico, le passioni che ti hanno formato, la sensibilità che non si insegna in nessun corso e in nessun manuale. È lì che si annida la vera leva creativa e la tua originalità come professionista in grado di apportare qualcosa di nuovo a un progetto.
Un altro punto cruciale è la responsabilità: ogni contenuto che scrivi lascia un segno, piccolo o grande, nell’immaginario di chi lo legge. Per questo penso che il lavoro del copy oggi debba mirare non solo all’efficacia immediata, ma anche a costruire senso e bellezza, cercando di non produrre troppe scorie psicologiche. Non basta funzionare, bisogna nutrire. Se dovessi riassumere in una frase: meno ansia da
rincorsa tecnologica, più capacità di interrogarti, di dubitare, di aggiungere alla realtà una parola che immagina e non solo che persuade.
Postilla
Prima di chiudere e salutarti vorrei aggiungere che una di queste risposte è stata scritta pressoché per intero da un’intelligenza artificiale. Magari può essere divertente, per il lettore, individuare quale.