Maria Vernuccio e Federica Ceccotti hanno scritto “L’evoluzione del branding nell’era digitale” edito da McGraw Hill nel 2025. Di seguito le loro risposte alle mie domande.
Ciao Maria e Federica, ci raccontate i vostri attuali focus lavorativi?
Maria: sono Professoressa Ordinaria di Management e dirigo il Master Universitario in Marketing Management (www.mumm.it) della Facoltà di Economia di Sapienza Università di Roma, dove insegno Digital Marketing (dal 2004!) e Ricerche di Marketing. Faccio parte del Consiglio direttivo della Società Italiana Management, dove mi occupo di comunicazione e inclusione. La mia grande passione è la ricerca accademica su temi come AI & Branding, comunicazione integrata di marketing, metaverso ed esperienza di marca e brand anthropomorphism.
Federica: sono Coordinatrice del Master Universitario in Marketing Management e Professoressa Associata presso la Facoltà di Economia della Sapienza, dove insegno Corporate and Marketing Communication e Market Driven Management. Ho la fortuna di portare in aula i temi che più mi appassionano anche nella ricerca: l’innovazione nella comunicazione di marketing, il branding, la sostenibilità ambientale e sociale e l’influencer marketing. Inoltre, sono Consigliera di Presidenza della Società Italiana Marketing, con delega alla comunicazione digitale e ai progetti di education.
Come avete strutturato il vostro “L’evoluzione del branding nell’era digitale” e a chi si rivolge?
Maria: Il nostro libro prima di tutto vuole delineare il percorso evolutivo del brand: com’è cambiato il significato della marca in oltre un secolo di storia manageriale? Come sono cambiate le modalità di gestione? Quali sono state le principali soluzioni organizzative adottate per il branding?
Per questo, siamo partite inquadrando le macro-fasi del branding, attraverso le quali siamo giunti all’attuale stadio, quello del paradigma sociale e del social purpose branding, che è fortemente plasmato dalla rivoluzione digitale. Grazie soprattutto alle forze trasformative della rivoluzione digitale, ossia l’iper-connettività, l’apertura, l’intelligenza artificiale e l’immersività, oggi il brand conquista pienamente e per la prima volta un ruolo sociale, diventando un’entità sociale. Allo stesso tempo, le strategie di branding sono sempre più basate su orchestrazione, engagement, personalizzazione data-driven, antropomorfismo, esperienza e social purpose. Le strutture organizzative per il branding sono più fluide, agili, reticolari, decentralizzate e digital-first.
Considerando proprio lo stadio evolutivo odierno del branding, dove si privilegia una logica ibrida, di mercato e sociale, abbiamo proposto l’approfondimento di una particolare strategia di marca social purpose-driven, e cioè l’inclusive branding. Anche sulla base di numerosi casi di studio ed esempi, abbiamo analizzato come si sviluppa un branding inclusivo attraverso la costruzione della brand identity, del posizionamento sociale e competitivo e della “social brand promise”, evidenziando che nello scenario attuale esistono approcci strategici all’inclusione molto diversificati. Quindi, abbiamo approfondito le attività di marketing da porre in essere per mantenere una promessa sociale, come pure i risultati positivi e negativi per la marca, i consumatori e la società.
Il volume è stato pensato per tutti gli appassionati di branding – studiosi di management, marketing e comunicazione, studenti e studentesse, manager e consulenti – con l’obiettivo di offrire loro un quadro interpretativo della realtà attuale della marca e delle strategie di marca, senza dimenticare il percorso che ci ha portato fin qui.
Descrivete il brand come “entità sociale, piattaforma e attore”. In che modo questo cambio di prospettiva influenza le scelte manageriali quotidiane delle aziende, soprattutto quelle medio-piccole che non dispongono dei budget dei grandi player?
Federica: Oggi la marca è un’entità sociale agita, una piattaforma di dialogo e collaborazione, non più controllata solo dall’azienda ma aperta al contributo di consumatori e stakeholder. Allo stesso tempo è un’entità agente, un attore dotato di intelligenza sociale — quasi “umana” — capace di apprendere, interagire e adattarsi, anche grazie alle tecnologie digitali e all’intelligenza artificiale. Il brand diventa un costruttore di relazioni e significati condivisi, assumendo un ruolo che va oltre la dimensione economica per diventare anche culturale e, soprattutto, sociale. Ed è proprio da questa evoluzione che nasce il concetto di social purpose branding: la marca non mira solo al profitto, ma integra nella propria identità un impegno autentico verso la società e l’ambiente, trasformandosi in un vero agente di cambiamento.
Questo nuovo paradigma ridefinisce la gestione della marca: il brand manager non è più un controllore del messaggio, ma un orchestratore di competenze, dati e tecnologie, che deve essere capace di creare coerenza tra l’identità (anche sociale) di marca, il posizionamento competitivo e sociale del brand e le azioni di marketing e comunicazione realizzare per il mantenimento di questa promessa.
Per le PMI, questa trasformazione rappresenta una grande opportunità. Con un uso intelligente dei dati e dei canali digitali, possono costruire relazioni personalizzate e una presenza di marca più “umana” e vicina, anche con risorse limitate. Inoltre, attraverso un social purpose autentico e il coinvolgimento diretto dei diversi stakeholder e della loro community, possono generare valore, distinguendosi sul mercato e contribuendo, al tempo stesso, a realizzare un impatto positivo sulla società.
Molte aziende faticano a rendere autentico il proprio “purpose”, rischiando di scivolare nel greenwashing o nel purpose washing. Quali criteri concreti distinguono un social purpose autentico da una semplice operazione di facciata?
Federica: un social purpose autentico si distingue da un’operazione di facciata per alcuni importanti elementi. Prima di tutto, l’impegno sociale deve essere parte integrante dell’identità di marca e orientare realmente le decisioni strategiche e operative dell’impresa. Un secondo aspetto fondamentale è la coerenza con il core business: il social purpose deve essere coerente con le competenze e le attività principali dell’impresa. È proprio la coerenza che rende credibile l’impegno. Sono poi senz’altro fondamentali la visione di medio-lungo periodo e, anche in questo caso, la coerenza e la continuità dell’impegno nel tempo. Le azioni devono essere effettivamente orientate al cambiamento, non iniziative una tantum o campagne promozionali condotte solo per ragioni opportunistiche. Inoltre, le imprese che agiscono in modo autentico coinvolgono attivamente consumatori, dipendenti e comunità, condividendo risorse, competenze e obiettivi comuni. Il cambiamento sociale nasce dalla collaborazione, non dalla comunicazione unilaterale. Infine, il social purpose deve tradursi in risultati concreti e verificabili l’impresa, i consumatori e la società all’interno della quale l’impresa opera. In sintesi, un social purpose autentico nasce dall’equilibrio tra coerenza, continuità e impatto concreto, capace di integrare la logica competitiva con quella sociale. Quando invece l’impegno sociale resta una semplice leva comunicativa e non una reale componente della strategia di branding, il rischio di purpose washing cresce in modo significativo.
L’umanizzazione dei brand è un tratto centrale del vostro lavoro. Ma non c’è il rischio che un’eccessiva “personificazione” porti a un effetto caricaturale o addirittura respingente? Dove si colloca, secondo voi, la linea di confine tra empatia e forzatura?
Maria: Se il brand diventa un attore sociale consapevole, deve umanizzarsi nel modo più autentico. Ciò non vuol dire assumere ‘pose’ caricaturali che imitano malamente “personaggi” o comportamenti tipicamente umani, ma costruire una strategia manageriale di antropomorfismo che parta dalla costruzione di un’identità basata (anche) su un ruolo sociale, un posizionamento sociale (oltreché competitivo) e una “social brand promise”, promettendo agli stakeholder specifici comportamenti sociali. È un modo radicalmente nuovo di costruire e posizionare un brand, perché per la prima volta questo assume un ruolo sociale, dato dalle aspettative su come dovrebbe comportarsi in base alla sua collocazione dichiarata nel sistema sociale. Non si tratta quindi di una “personificazione” superficiale e di maniera, ma di una nuova strategia di costruzione e gestione del brand, che parte dall’identità dello stesso.
L’intelligenza artificiale sta ridefinendo la produzione di contenuti, la customer experience e persino le dinamiche di fiducia. Come vedete evolversi il concetto di branding in un mondo in cui parte dell’interazione con il brand non sarà più umana ma mediata da agenti artificiali?
Maria: L’intelligenza artificiale è uno dei fattori alla base della strategia di antropomorfizzazione del brand. L’AI trasforma il brand in un’entità sociale agente, cioè un attore intelligente, e quindi antropomorfo, che si relaziona con il consumatore attraverso comportamenti, come dialoghi e stimoli comunicativi, che approssimano quanto accade tra gli esseri umani. Pensiamo, ad esempio, a stimoli human-like come la voce degli assistenti vocali. La progettazione della voce di marca e delle capacità e dinamiche di dialogo AI-based può contribuire in modo significativo a costruire nella mente del consumatore la percezione di una personalità di marca antropomorfa e a sviluppare nel tempo una relazione più profonda con questa.





