Quello che stai per leggere è un articolo difficile, anche sofferto, trasudante di brutte esperienze e (dunque) di consapevolezza. Consapevolezza che gli errori sono inevitabili – come sono imprevedibili gli incontri – e che tanto vale mettersi comodi e cercare quantomeno di osservarli per trarne un minimo insegnamento. Ché non è mai tardi per imparare a campare, almeno un po’.
La questione del tone of voice riguarda principalmente gli aspetti della comunicazione corporate aziendale legati alla trasmissione di messaggi verso l’intero pubblico di riferimento, oppure al rapporto diretto tra l’azienda e un singolo utente che magari richiede informazioni prima, durante o dopo l’acquisto.
Io, tu, noi, voi…
Oggi vorrei andare un po’ al di là degli aspetti di superficie – comunque importanti – legati al modo di rivolgersi in base al contesto. A me interessa fare alcune considerazioni sul fatto che al netto di scivoloni da shit-storm, mentre le grandi aziende riescono ad avere una standardizzazione nel modo di gestire la comunicazione a tutti i livelli, nelle piccole realtà, quelle con pochi dipendenti che al mattino si guardano tutti negli occhi, fino ai freelance che da soli gestiscono tutti gli aspetti del proprio business, si è sempre soggetti a “sbalzi d’umore” e bias cognitivi che possono generare differenze anche importanti nel modo di relazionarsi con i clienti effettivi e potenziali.
Immagina ad esempio un signor Pinco Pallino che gestisce una piccola web agency con 3 dipendenti. Pinco Pallino è il capo, dunque si occupa di portare avanti le condivisioni sui social, rispondere alle richieste di preventivo che gli arrivano via email, avere a che fare coi clienti già acquisiti ed esplorare i progetti web di quelli ancora da “conquistare”.
Ora può succedere – e di questo parliamo oggi – che il signor Pallino, con una laurea in psicologia e una in scienze della comunicazione, si ritrovi davanti un possibile cliente che potremmo definire “difficile”, perché sfiduciato, poco consapevole e poco convinto. Ora metti che il nostro Pallino ieri sera abbia litigato con la moglie o che stia male per qualche altro motivo, oppure metti che il potenziale cliente sia in realtà una persona normalissima e anche motivata, ma che abbia la sfortuna di somigliare dannatamente a quel brutto ceffo del liceo che lo prendeva sempre in giro e per di più abbia anche una voce molto simile alla sua.
Insomma, si fa presto a parlare di Tone of Voice e dinamiche relazionali, ma come la mettiamo in questi casi? Riesci sempre a mantenere la calma e comportarti da professionista? Quanto riesci davvero a distaccarti da quello ce stai facendo?
Ma poi, perché devi distaccarti?
E veniamo al mio suggerimento: se lavori per una multinazionale e ti occupi di contenuti o di helpdesk, hai molto probabilmente delle routine standard a cui fare riferimento, quindi sarà più difficile sgarrare. Esegui ordini seguendo uno script e se fai quello che sto per scrivere, magari ti licenziano pure.
Se invece sei un semplice essere umano come il nostro Pinco Pallino, che la sorte ha messo in condizione di relazionarsi col mondo, fai del tuo meglio, ma per l’appunto non scordarti di essere “umano”, nel senso che non deve per forza andare tutto bene. Il “pensiero positivo” è la più grande panzana prodotta dal genere umano, quindi se in un certo momento ti senti in imbarazzo o a disagio per qualche motivo, puoi certamente comunicarlo al tuo interlocutore. Questa schiettezza, a patto che sia confezionata nel garbo, ti renderà più libero di comunicare con scioltezza e allo stesso tempo darà più profondità e dinamica a quello che dici.
Chi ti ascolta o ti legge, percepirà che sei trasparente e tenderà a darti più fiducia. E bada che non ti sto istruendo su una tecnica di vendita, ma ti ho solo suggerito di essere appunto più trasparente sui tuoi stati d’animo, magari cercando di non apparire schizofrenico.
Questa cosa che ti ho spiegato si chiama “condivisione”. Ed è un po’ diverso da quello a cui ci hanno abituato i social.
Infatti non sono capaci tutti.